
Pacia invoca addirittura il cosiddetto legittimo sospetto, ventilando, ma guardandosi bene dal formalizzarla, un’istanza di remissione. È l’ennesima finzione. Si lamenta, giustamente, di alcune dichiarazioni ardite di avvocati che danno la fine del processo tra pochi giorni, quando il teste chiave avrà parlato, ma dimentica la recente uscita di un libro in cui i suoi assistiti vengono, con largo anticipo, assolti. A soffiare sulle braci dei vari avvocati siamo noi, noi giornalisti. C’è chi soffia più forte, chi è più accorto. Ma se lo sbuffo su un tizzone può essere perfetto per alimentare un confortevole focherello, il rischio è che poi, per un alito di vento, le fiamme possano scappare di mano. Trovare l’equilibrio tra una cronaca dettagliata del processo e la deriva di un racconto che diventa altro rispetto a quanto accade davvero in aula è davvero impresa ardua. Basta un aggettivo in un titolo a cambiare la storia. E la storia, per la gente, non è quella che si consuma, dal 29 gennaio, in Corte d’Assise a Como, ma quella che da lì, inesorabilmente, trasla sulle pagine dei giornali e, con ancor maggiore violenza, nei servizi televisivi. Il controllo di questa traslazione non è affare da avvocati. È compito nostro.
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